Gli Economisti del Novecento teorizzavano che ci fosse correlazione tra sindacalizzazione e andamento delle retribuzioni: più le adesione al sindacato sono alte, più sarà forte il loro potere contrattuale ,più saranno alte le retribuzioni.
Il Novecento in Italia, sembra tramontato: il nostro paese dichiara tassi di sindacalizzazione doppi o tripli di Francia, Spagna e Germania, eppure lì i salari sono cresciuti, al contrario da noi non solo sono fermi ai livelli della fine del secolo scorso, ma addirittura, sono scesi, la correlazione tra iscritti al sindacato-forza contrattuale-aumento salariale è saltata, non c’è più.
In Italia gli iscritti risultano essere tanti ma le retribuzioni calano in termini reali, mentre altrove gli iscritti calano o non crescono, eppure i sindacati ottengono miglioramenti salariali in termini sia nominali che reali. Sorge spontaneo domandarsi; Come è possibile? Dove sta l’inghippo?
Alcune recente indagini sulla sindacalizzazione cercano di dare, se non una spiegazione, un suggerimento: forse i conti non tornano, perché non è esatto il dato della sindacalizzazione italiana sopra il 30%.
I dati dell’Ocse, normalmente citati, si basano in primo luogo sulle dichiarazioni dei sindacati, autocertificazione), cioè si chiede all’oste la qualità del vino, altre ricerche, più recenti, hanno analizzato, la questione da un’altro punto di vista, cioè quello delle persone che si dichiarano iscritte ad un sindacato rispondendo ai sondaggi.
Una di queste indagini, ha usato i dati di sondaggi condotti per altri motivi, (ad esempio gli studi dell’Istituto Cattaneo sui flussi elettorali), inserendo la domanda sull’appartenenza ad un sindacato, il risultato che emerge è che la percentuale di chi si dichiara iscritto ad un sindacato è inferiore alla percentuale dichiarata dalle organizzazioni, differenza, poco rilevante fino alla fine del Novecento, mentre dall’inizio del Duemila è andata accentuandosi: le ultime rilevazioni registravano un tasso che fatica ad arrivare al 20%.
Un’altra indagine, riportata nel primo numero di ECO cerca di ottenere dati articolati per regioni e settori produttivi: in questo caso sono stati condotti sondaggi specifici interrogando gli individui, sulla base di questi dati è stata stimata la probabilità di sindacalizzazione per tipologie di lavoro svolto, sulla base di queste stime è stato calcolato l’indice probabile di sindacalizzazione per regioni e per settori: la percentuale più alta su base regionale è il 24,7 del Trentino-Alto Adige/Südtirol, quella su base settoriale è il 26,8 dell’istruzione.
Neppure nei punti più alti, i dati ottenuti consultando le persone si avvicinano al dato dichiarato dalle organizzazioni.
E allora? O i sondaggi sbagliano, ma il discorso si fa tecnico e va affidato agli specialisti, oppure bisogna trovare una spiegazione a questa notevole differenza, emersa nella prima ricerca e ribadita con forza nella seconda, non si può dare la colpa ai sindacati dei pensionati o alle iscrizioni ad insaputa d’iscritti, perché le ricerche hanno tenuto conto solo dei lavoratori attivi.
Nel Novecento l’iscrizione al sindacato aveva motivazioni ideali o pratiche, ma erano forti: ci si iscriveva sapendo di fare una scelta di campo, dal Duemila, in Italia, l’iscrizione al sindacato diventa (per molti) un’adesione meramente strumentale: come la tessera del supermercato che dà diritto agli sconti, ma che non produce identità.
Per molte persone dire “sono iscritto alla CGIL-Cisl o Uil ” ha più o meno lo stesso significato di dire “ho la tessera Fideltà dell’Esselunga”.
In un sondaggio sull’appartenenza o meno ad un’organizzazione sindacale, viene fuori che forse ci si è iscritto per il Caf o per un conteggio e magari non lo dice o non lo ricorda, o addirittura non ricorda a quale sindacato si è iscritto, non è una cosa importante, come fare la spesa in un posto o in un altro.
Può darsi, dunque, che il tasso di sindacalizzazione sia effettivamente sopra al 30%, ma il numero di chi vuole essere rappresentato è più vicino al 10, forse dicono la verità sia i numeri dichiarati dalle organizzazioni che le persone che rispondono ai sondaggi.
In conclusione, occorre scegliere dove andare :tornare al Novecento non si può, ne tanto meno puntare a soluzioni ottocentesche come la partecipazione agli utili d’impresa, venduta dall’inquilino di Via Po come se fosse il nuovo che avanza.
Di certo non si può restare nel Duemila italiano, con sindacati sempre più pavidi e gonfiati da adesioni prive di motivazioni e di idealità.
Nel Duemila il lavoro richiede: competenza, adattamento, istruzione, capacità, caratteristica che in giro ne vedo molto poca.
Sarebbe molto meglio cercare di andare verso quel Duemila che stanno vivendo altri sindacati nel mondo che sono capaci di organizzazione, di conflitto e di contrattazione e i loro risultati si vedono nella busta paga, non nelle parole al vento di “anziani” dirigenti che hanno sbraitato dal palco del Primo maggio.
Alfredo Magnifico