Il rapporto Inapp (Istituto per l’analisi delle politiche pubbliche), sottolinea il fallimento in Italia della contrattazione collettiva e la minore produttività, cresciuta però più delle retribuzioni nel periodo 1991-2022
I Salari reali degli Italiani, negli ultimi 30 anni, tra il 1991 e il 2022 sono rimasti pressoché invariati, con una crescita dell’1%, a differenza dei Paesi dell’area Ocse dove sono cresciuti in media del 32,5%.
Nel solo 2020 (terzo nell’anno della pandemia da Covid-19) in Italia si è registrato un calo dei salari in termini reali del -4,8%. In quest’anno si è registrata anche la differenza più ampia con la crescita dell’area Ocse con un -33,6%, a questo problema si è aggiunta la scarsa produttività: a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%.
Questo dato sancisce un ulteriore fallimento della contrattazione collettiva ed è legato alla bassa produttività, cresciuta più delle retribuzioni nel periodo, con:
· crollo della quota dei salari sul Pil, a fronte della crescita del peso dei profitti (40% contro 60%),
· le politiche di incentivazione, non hanno prodotto risultati sull’occupazione femminile,che resta bloccata al 40,9%, a fronte del 60% degli uomini.
· la questione salariale è stata aggravata nell’ultimo triennio dall’incedere dell’inflazione.
I salari reali sono, addirittura, calati rispetto al 2020, a fronte di incrementi sostanziali negli altri Paesi, secondo Fadda il responsabile Inap potrebbe essere «utile in questo contesto l’introduzione del salario minimo legale», considerato che le tanto celebrate norme sulla contrattazione collettiva, addotte spesso a ragione dell’opposizione al salario minimo, non sono state capaci di garantire tra il 1991 e il 2022 la crescita dei salari reali.
Non esistono ragioni per escludere strumenti basati sull’imposizione di una soglia minima salariale invalicabile, anzi la Costituzione promuoverebbe un Salario Minimo o dignitoso.
Il 14,6% degli occupati tra i 18 e i 74 anni (oltre 3,3 milioni di persone) abbandonerebbe il posto di lavoro le quote più alte con intenzione di dimettersi sono gli occupati con un diploma (18,9%),mentre, diminuiscono col crescere dell’anzianità anagrafica e delle dimensioni del comune di residenza, maggiormente gli occupati dipendenti, operanti nelle organizzazioni di media dimensione (15-49 addetti) e che svolgono la loro attività in imprese private.
Nel pubblico l’1,5% dei lavoratori (contro l’1% del privato) lo farebbe anche se questo comportasse una riduzione del tenore di vita.
Il desiderio di cambiare occupazione è maggiore per chi svolge lavori più faticosi e poco soddisfacenti.
Dopo la crisi generata dalla pandemia il mercato del lavoro italiano ha ripreso a crescere ma questo percorso appare condizionato dalle criticità strutturali che lo caratterizzano: bassi salari, scarsa produttività, poca formazione e un welfare che fatica a proteggere tutti i lavoratori.
Restano senza paracadute oltre 4 milioni di lavoratori ‘non standard’: dagli autonomi, a chi è stato licenziato o è alla ricerca di un’occupazione, passando per i lavoratori della gig economy fino ai cosiddetti working poors.
Sul sistema produttivo italiano grava un’altra minaccia il labour shortage, (la carenza di lavoratori), che si manifesta con la difficoltà dei datori di lavoro a coprire i posti vacanti, la forza lavoro in Italia invecchia rapidamente: se nel 2002 ogni 1.000 persone che avevano un’età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 aventi 40-64 anni, oggi questi ultimo sono oltre 1.400,i più anziani sono quelli che operano nella pubblica amministrazione, dove si trovano ben 3,9 lavoratori anziani ogni lavoratore giovane.
Nel 2022 le nuove assunzioni risultano in calo rispetto al balzo di fine pandemia, ma il saldo attuale è positivo rispetto a gennaio 2020 (+550mila). Il numero di assunzioni nel 2022 è peggiorato rispetto al 2021:414 mila nuove attivazioni nette nel 2022 a fronte di 713 mila nel 2021.
La componente maschile conferma un numero di attivazioni maggiore (54% rispetto al 46% delle donne), mentre la categoria dei giovani, dopo essere stata colpita profondamente dalla pandemia e dalla precedente crisi del 2008, conferma il recupero di quote occupazionali: il 26% delle attivazioni del 2022 si concentra nella fascia dai 25 ai 34 anni, a seguire le quote dei 35-44enni (21%) e dei 45-54enni (20%).
Gli incentivi per assumere le donne non funzionano solo un’esigua percentuale di aziende -il 4,5%- ritiene importante l’introduzione del programma di incentivazione ai fini delle loro decisioni di assunzione.
La probabilità di ricorrere a uno o più schemi di incentivazione all’occupazione è maggiore del 50% per le imprese di grandi dimensioni (con più di 250 addetti), mentre si riduce sensibilmente raggiungendo il 24% per le microimprese. Le imprese del Mezzogiorno sono molto più propense a utilizzarle: circa il 38% delle imprese del Sud e il 36% di quelle localizzate nelle Isole dichiara di aver usato almeno un incentivo, contro il 20% (in media) delle aziende localizzate nelle altre aree.
Forme di agevolazione hanno interessato quasi 2 degli oltre 8 milioni di nuovi contratti attivati nel 2022, ovvero il 23,7% ; la decontribuzione l’incentivo più utilizzato per il 65% dei nuovi contratti, seguito dall’apprendistato (20%) e dagli incentivi rivolti a target specifici: esonero giovani con il 4,7% e incentivo donne, che ha inciso per il 4,8% sull’occupazione totale, il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è a tempo parziale, contro il 32,2% degli uomini.
In sintesi in Italia abbiamo sbagliato tutto a puntare, anche attraverso accordi trilaterali e/o di concertazione, sui bassi salari con la motivazione speciosa che così avremmo aiutato l’occupazione. Bassi salari che invece hanno tenuto bassa la produttività, che a sua volta ha frenato la crescita salariale, senza nemmeno aiutare l’occupazione.
Alfredo Magnifico