di Massimo Dalla Torre
Giugno 2017 mentre il popolo degli ambulanti come una colonia di formiche fra qualche giorno monterà le strutture e gli stand, che occupano gli spazi cittadini, la gente ha iniziato a pensare dove è il luogo più idoneo per assistere alla sfilata dei misteri. Festa che, se potessimo utilizzare il linguaggio sportivo del baseball, anche quest’anno, sicuramente, segnerà un “inning” a suo favore.
Un avvenimento che puntualmente richiama nel capoluogo di regione sempre più curiosi, sempre più amanti delle tradizioni vere e proprie “testomonial” di una cultura tutta nostrana che però sta svanendo perché pochi sono quelli che tendono a conservarla intatta. Una festa che, nonostante si voglia “cervellotizare”, vero e proprio controsenso, è nata dal popolo custode indiscusso della tradizione, o di quello che ne rimane. Una festa che racchiude in se un significato che, nonostante sono passati circa oltre 300 anni rimane immutata, anzi si è ingigantita e si riappropria, a ragion veduta, del suo “animus originale”. Uno stampo che, non ha alcun bisogno di spiegazione, perché le spiegazioni le si hanno semplicemente guardando la città sia nei giorni che precedono la sfilata degli ingegni sia nel giorno dedicato agli ingegni stessi nati dalla creatività di Paolo Saverio di Zinno. Una città che si anima, si vivacizza, si trasforma. Una città che si apre a quanti arrivano fin dalle prime ore del mattino per occupare un posto in prima fila per assistere alla manifestazione che affonda le radici nella notte dei tempi. Una città che diventa persino multietnica, in cui culture, costumi e profumi distanti migliaia di chilometri l’una dall’altra s’incontrano, anche se solo per pochi istanti, abbattendo in questo modo un muro che molti vorrebbero erigere.
Un qualcosa che da sempre alimenta contrapposizioni che non capiremo mai, perché non ci appartengono, eppure ci, sono. Contrasti che, come accadeva all’epoca della loro prima uscita nelle vie del borgo sotto certi aspetti, ancora divide tra favorevoli e contrari alla saga. Un “fronda” che fa sorridere, in quanto, altre realtà farebbero le cosiddette “carte false” pur di accaparrarseli e farli sfilare con tutto il rispetto che loro si deve. Un rispetto che sarebbe bene tenessimo a mente perché le sacre rappresentazioni portate a spalla lungo un percorso di quasi 3 chilometri e mezzo da chi ci crede veramente, sono state, sono e saranno, comunque vadano le cose, la carta d’identità di una comunità capace di chiudersi a riccio pur di salvaguardare un qualcosa di unico, cui difficilmente si può rinunciare perché fa parte del DNA dei “campuascian” per dirla in dialetto.