Si avvicina la discussione parlamentare sul “Testo unificato recante disposizioni in materia di consenso informato e direttive anticipate di trattamento” riguardanti il “fine-vita”. Gli aspetti etici e le ricadute sociali delle decisioni da prendere sono tali, che un’attenta riflessione risulta più che mai necessaria per chiunque abbia a cuore il bene comune. La prima impressione è che il testo si fondi sull’assolutizzazione del principio di autodeterminazione: s’interpreta in tal senso l’Art. 32 della Costituzione repubblicana, secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Il principio di autodeterminazione qui evocato sembra offrirsi come un prodotto alto del processo emancipatorio della modernità: se emancipazione è – come scriveva il giovane Marx ne La questione giudaica (1842) – “la riconduzione dell’uomo e di tutti i rapporti in cui è posto all’uomo stesso”, e dunque l’affermazione dell’assoluta autonomia della persona umana nello scenario della vita di ciascuno e della storia di tutti, sembrerebbe che il diritto all’auto-determinazione non possa né debba conoscere limitazioni. Così, tuttavia, non è, anzitutto perché “nessun uomo è un’isola” (Thomas Merton), e dunque nessuno dovrebbe agire senza tener conto della ricaduta prossima o remota delle sue azioni in rapporto agli altri, ma, soprattutto, perché nessuno può disporre a suo piacimento di un bene/valore per sua natura originario e indisponibile, quale è quello della vita. Questa convinzione si fonda per chi crede nella consapevolezza che la vita viene da Dio e Lui solo ne può decidere, ma vale anche per chi non crede perché, se la vita non fosse un valore indisponibile, tutti saremmo esposti all’arbitrio di chi volesse farsene padrone. Diventa chiaro, allora, che dove s’intenda per principio di autodeterminazione un arbitrio incondizionato del soggetto anche rispetto a valori indisponibili, le conseguenze potrebbero risultare devastanti per la persona e per la collettività: non a caso nella Costituzione dell’Italia repubblicana vengono richiamati valori da “riconoscere”, di cui dunque non si può disporre a proprio piacimento (ad esempio nell’art. 2, dove si afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”). In questa luce occorre esaminare i principali nodi problematici che il “Testo unificato” presenta.
In primo luogo, esso afferma la possibilità che il consenso del paziente riguardi non solo l’attivazione, ma anche l’interruzione di ogni cura, anche nel caso che essa sia ritenuta proporzionata dal medico, comprese l’idratazione e l’alimentazione (art. 1), considerate dunque come terapie e non come forme di sostegno vitale. Il punto è delicato, perché ciò potrebbe equivalere a una vera e propria via libera all’opzione di rinuncia alla vita. Inoltre, l’art. 3 del “Testo unificato” rende il contenuto delle direttive anticipate di trattamento interamente sovrapponibile a quello del consenso: il soggetto, cioè, potrà esprimere “ora per allora” (“nunc pro tunc”, e pertanto anche in assenza di qualsivoglia stato patologico, in situazione cioè di “perfetta salute”) il consenso alla futura attivazione e interruzione di ogni terapia comprese, come s’è detto, l’idratazione e l’alimentazione “artificiali”. Il rifiuto di cure “anticipato” è così equiparato al consenso informato e attuale espresso dal paziente, ignorando quanto un’amplissima casistica dimostra, e cioè che altro è decidere su queste questioni in condizioni di piena salute, altro è farlo in uno stato di infermità che – oltre a poter togliere lucidità di giudizio – spesso attiva un desiderio di vita mai altrettanto sperimentato in assenza di patologie. Secondo il testo unificato, poi, le direttive date sarebbero vincolanti e non solo orientative per il medico, che potrebbe disattenderle, d’accordo con il fiduciario (eventualmente) nominato dal soggetto nelle sue disposizioni, soltanto “qualora sussistano motivate e documentabili possibilità, non prevedibili all’atto della sottoscrizione, di poter altrimenti conseguire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Il carattere sdrucciolevole di queste affermazioni è aumentato dal fatto che non sono previsti per le direttive anticipate di trattamento limiti di validità temporale, anche se esse possono essere sempre revocate o modificate (quindi, ad esempio, potrebbero essere espresse da un diciottenne in stato di perfetta salute ed essere efficaci anche dopo molti anni, se il soggetto non avesse provveduto a revocarle o modificarle, pur quando la persona avesse maturato una diversa percezione della propria condizione).
Manca nel “testo unificato” qualunque riferimento al concetto di cure proporzionate o sproporzionate, e dunque a quell’insieme di attività comprese nel cosiddetto “accanimento terapeutico”, considerate non obbliganti dal punto di vista morale. Il paziente, pertanto, potrebbe non solo rifiutare l’attivazione, ma anche chiedere l’interruzione di terapie del tutto proporzionate, obbligando il medico ad agire in senso non terapeutico. Ciò, oltre a svalutare il ruolo dello stesso medico, ridotto a mero esecutore, renderebbe assai problematico distinguere tali interventi da un atto di vera e propria eutanasia. Se questi contenuti venissero confermati, il medico potrebbe essere chiamato a interrompere terapie da lui ritenute proporzionate nel caso di un paziente capace di consenso informato e, per il caso di un paziente incapace, a non attivare e/o interrompere terapie ritenute proporzionate. La Nuova carta degli operatori sanitari, presentata il 6 febbraio scorso, ricorda in proposito che “tutelare la dignità del morire” significa “rispettare il malato nella fase terminale della vita”, escludendo sia di “anticipare la morte” con l’eutanasia, sia di “dilazionarla con il cosiddetto accanimento terapeutico”. Come risulta da questi accenni, la posta in gioco nella discussione parlamentare è altissima: vengono investiti principi fondamentali, sanciti dalla Costituzione e ancor più scritti nella legge morale presente in ognuno di noi, quella legge che lo stesso testo costituzionale presuppone (cf. l’art. 2 già citato e l’uso del verbo “riconoscere”). L’auspicio è che tutti i parlamentari – al di là delle appartenenze partitiche – si sentano interpellati ad agire con coscienza informata riguardo a quanto decideranno, in ascolto della legge morale che è dentro di noi, nella consapevolezza che in questo iter decisionale può scriversi un progetto di vita e di futuro che tocca la dignità e la qualità della vita di tutti. Mons. Bruno Forte