In questi giorni alquanto concitati per la sagra dei misteri che, ha preso il volo definitivamente, ci siamo chiesti seriamente quanti conoscono il significato dei gesti, riti e soprattutto cosa insegna la tradizione. Parola che sta scomparendo perché nessuno è in grado di tramandarla o semplicemente raccontarla. Si tradizione, perché i misteri con tutto il loro significato simbolico e materiale sono tradizione allo stato puro, anche se molti lo rifiutano. Tradizione legata, a chi nella semplicità più disarmante cerca, anche inconsapevolmente di trasmettere un “sapere” e uno spaccato di vita vissuta che prende le movenze dal 1748, quando Paolo Saverio Di Zinno realizzò gli ingegni grazie all’arte forgiatrice dei fratelli Cancellario che materializzarono un qualcosa che è giunto a noi.
1748 anno pieno di avvenimenti ma speciale per la comunità campobassana che, racchiusa nelle sei porte di cui rimangono alcune vestigia, rimase esterrefatta al passare dei 24 ingegni, in origine erano 24, poi causa vicende varie si ridussero a 18 e infine a 12 anzi a 13 con l’aggiunta del cuore di Gesù realizzato negli anni 50 dai fratelli Tucci, stupore legato al misticismo e alla fede che è il filo conduttore delle sacre rappresentazioni dell’antico e nuovo testamento. Stupore che tutt’oggi si vede negli occhi della gente che s’inchina a quello che l’ingegno umano seppe rendere vivo ben 300 anni fa. Stupore ma anche fragilità, perché i commenti della gente non lasciano dubbi, anzi danno certezza e crea una barriera protettiva sia alle macchine, sia ai figuranti e a chi annualmente permette con determinazione di dare corpo a un sogno che prese corpo in via sant’Antonio Abate, dove è situata l’abitazione del Di Zinno.
Certezze che danno sensazioni uniche senza timore di smentite altrimenti il tutto sarebbe vano. Certezze che man mano che passano i giorni si rafforzano tant’è che molti si chiedono sempre più ma cos’è che permette tutto questo? Semplice un aggettivo che pochi possono fregiare di avere: Campobassanità. Pochi se non addirittura pochissimi, giacché i Campobassani puri oramai si sono dissolti in mille rivoli come quelli di un fiume che partendo dalla sorgente si apre la strada e si disperde lasciando poca traccia dell’origine.
Campobassanità che è riecheggiata nelle interviste, considerazioni, scritti, articoli, cronache televisive. Campobassanità che spesso e volentieri è barattata, senza sapere che è un qualcosa da preservare, e non sbandierare al vento, millantandone la genitura. Campobassanità che è la porta di accesso a un lungo percorso che alla fine si abbandona perché non si è in grado di mantenere dritta la barra direzionale. Campobassanità che neanche a chi scrive appartiene perché di “sangue misto”. Campobassanità che, però, permette di essere capita a una sola condizione: non se ne stravolga il significato e noi indegnamente cerchiamo di difenderla altrimenti andrebbero persi i connotati che ne fanno un punto di partenza e di arrivo della comunità locale; ovviamente non tutta.
di Massimo Dalla Torre