di Massimo Dalla Torre
Fare cultura. Potrebbe essere questo l’imperativo, ma non lo è, per il rilancio del Molise. Un qualcosa che necessita anche se manca un requisito essenziale: la volontà di agire che è evanescente sotto tutti i punti di vista. Un requisito che viene ignorato volutamente da chi non vuole che si faccia cultura.
Eppure, i presupposti ci sono, perché la ventesima regione dello stivale che, ha origini preistoriche, potrebbe essere il vettore culturale per altre realtà molto più giovani della nostra, ma trova la via sbarrata da chi è privo di cultura in tutti i sensi; ecco perché spesso ci si chiede: il Molise culturale esiste? Oppure è farlocco? Punto di domanda che vorremo girare a chi si riempie la bocca di cultura senza sapere che quello che si cerca di far passare come culturale spesso e volentieri non ha alcun fondamento.
Un macigno che pesa e che penalizza pesantemente un territorio che migliaia di anni fa vide soggiornare una comunità arcaica lungo le rive di un lago oggi scomparso vicino Isernia prima, e di genti, i Sanniti, che si opposero all’imperialismo romano dopo, pagando a caro prezzo la ribellione. Vestigia che volutamente vengono ignorate e tenute nascoste e abbandonate perché non comprese e considerate di poca importanza, senza sapere che moltissimi pezzi di cultura molisana si possono ammirare nei musei più importanti del mondo, leggasi British Museum con la Tavola Osca di Agnone, Luovre vasi rinvenuti nei territori dominati dai sanniti, Hermitage con testimonianze di civiltà molto vicine alle genti molisane, ma non nel Molise.
Territorio regalato secoli fa come dono di nozze ad una nobile ragazza andata in sposa ad un potente le cui tracce sono riscontrabili negli stemmi dei casati impressi sulle mura dei castelli che si ergono sul territorio quale testimonianza nei confronti di chi vuole ancora nutrici con un piatto di fava-vulgaris, cibo consumato dai servi della gleba.
Condizione che difficilmente vedrà sollevarci e che chi non ci conosce racchiude nell’affermazione latina: de rustica progenie, semper villana fuit, che Piero Fanfani riportò nel vocabolario dell’uso toscano del 1863 e ripreso in scritti posteriori attribuiti all’uso popolare con il suo maccheronico dettato. Lo stesso nel 1872 compare attestato in una commedia di Antonio Bertanzon Boscarin.
Affermazione che respingiamo con forza, che invece, calza pienamente a chi occupa e spadroneggia senza alcun titolo un settore essenziale del sistema, anche se quest’ultimo, è tecnologicamente avanzato e di conseguenza senza radici ma soprattutto privo di storia e di conseguenza di cultura.