Riceviamo e pubblichiamo la nota di un nostro lettore.
Di tutte le città italiane da me visitate (e le posso assicurare che ne ho visitate tante), Campobasso è quella che si allontana di più dal concetto di città.
Le potrei citare Vercelli, Cremona, Mantova, Piacenza, Fano, Salerno, Reggio Calabria, Catania, tanto per parlare di quelle realtà che più si avvicinano al capoluogo molisano, e non menzionare le solite città a cui siamo abituati a pensare e che, in quanto mete turistiche, devono avere un decoro ed un’identità. C’è anche del Sud, come può vedere: il Sud tanto lontano dai concetti di amore della Res Publica e di interventismo, se raffrontato al Centro-Nord. Eppure c’è. Eppure Campobasso non regge il confronto. Gusti personali? No, basta andare in una qualunque di quelle città per rendersene conto.
Pur tentando di aderire ad iniziative culturali, sportive, volte alla tutela del bene comune, quindi cercando di partecipare in prima persona a quel poco che si svolge in città, sento che manca quella marcia in più che tantissime altre città hanno.
Perché? Perché manca quella VISIONE che altrove si può trovare, ed a volte, lo dico sinceramente, mi stupisco che non si arrivi a percepire le cose per quello che sono: una inesistente rassegna di musica classica piuttosto che di un festival del folklore, una Cittadella dell’Economia nel più completo degrado dopo un enorme dispendio di soldi pubblici, un’impiantistica sportiva da cercare con la lampada di Diogene, una panchina rotta, un parco pubblico totalmente abbandonato, una statua sacra infranta, un’assenza di aree verdi in prossimità dei condomini, che non obblighi i ragazzi a venire in centro per giocare a pallone, una rete viaria decorosa, una costruzione armonica di edifici residenziali, un punto informativo che funzioni, un trasporto pubblico non reciso dai tagli lineari, una serie di piccole aziende artigianali e manifatturiere che costituiscano il tessuto produttivo della città, mettendo al bando i colletti bianchi, in numero eccessivo per una realtà così esigua, un insieme di competenze che mandino avanti quella complessa macchina che si chiama amministrazione, un centro di aggregazione formativa per i giovani, e ricreativa per gli anziani.
A volte mi chiedo se ci sia qualcosa nell’aria che impedisce di avere questa visione, perché se non vado tanto lontano e mi fermo a Termoli, posso notare il cambiamento di aspetto che la località balneare ha avuto, la determinazione con cui lo ha perseguito, in barba ai soliti demolitori della domenica, la coesione di tanti residenti per dare alla propria città quello che si meritava.
Campobasso è ormai un conglomerato di storture estetiche e di programmi non stilati, emblema di quel sonno della mente chiamato indolenza, di assenza d’amore per se stessa, di scarsità di coesione fra le persone, di quell’estro che porta a fare grandi cose, e che puoi trovare persino nei piccoli paesi.
Qui non si sta demolendo per il puro gusto di demolire, ma si tratta di constatare, con realismo, quanto si sta verificando nel capoluogo da alcuni anni a questa parte e che, fermo restando il declino esteriore, sta anche determinando quello interiore.
Nessuno sembra porsi l’interrogativo, tutto preso dalle faccende più o meno insignificanti del proprio microcosmo. Non si può neanche parlare di accettazione, perché mentre quest’ultima riesce ancora a distinguere tra quello che può e non può essere fatto, l’apatia manca di questa distinzione; mentre l’apatia paralizza la volontà di agire, l’accettazione la libera da incarichi impossibili, dopo attenta valutazione.
Di impossibile in un cambiamento di passo non c’è nulla: se lo hanno fatto gli altri, lo possiamo fare anche noi. Ma bisogna avere l’umiltà di dire che, fino ad ora, si è solo collezionata una grande quantità di errori.
Gianpaolo Mazzuccato