Un caro saluto e vengo subito al dunque, si avvicinano le feste di fine anno e speranzosi come sempre speriamo di passarle in mezzo alla neve. Anche quest’anno non succederà perché il giorno di Santa Caterina, il 25 novembre, è stata una giornata uggiosa e piovosa. Non so dalle altre parti dell’italica Repubblica, ma dalle nostre parti abbiamo il vecchio proverbio che recita: “come catareneia, cuscì nataleia”. In sostanza, per i tridentini di origine tedesca che dovessero leggere (?) traduco in italiano corrente: il tempo atmosferico del giorno di Santa Caterina, sarà lo stesso del giorno di Natale. Quindi “lasciate ogni speranza” o voi che volevate la coltre bianca a Natale.
Ma lasciamo perdere le dissertazioni antropologiche de no artri ed andiamo al dunque: la neve!!
La neve ha sempre rappresentato un momento misto tra gioia e disperazione in maniera corrispondente all’età di ognuno di noi. Se da bambini la volevamo per giocare e non andare a scuola, ma ai miei tempi le scuole non le chiudevano, crescendo ci ha dato noie e qualche volta problemi per motivi lavorativi.
Oggi parliamo dei ricordi di quando eravamo, ero ragazzino e nevicava. Come tutti i ragazzini, i bambini uno dei divertimenti della neve era quello di “sciare” messo rigorosamente tra virgolette perché noi scivolavamo sulla neve con attrezzi di fortuna rigorosamente recuperati o auto costruiti, mai comprati. Si sa la gente di campagna si adatta e si adegua. Il primo ricordo che ho della neve in “campo sciatorio” è del mio amico Antonio, ha qualche anno più di me, e mi mostrava con orgoglio gli sci che aveva costruito insieme al fratello Lorenzo (“..o come dicevan tutti Renzo”) per abbordare le discese della loro campagna. Nulla era lasciato al caso: dalla scelta delle “rielle” le tavole trasformate in sci, alle punte degli sci ricavate da cerchioni dismessi di “piunze” le bigonce che si attaccavano alla “varda” (il bastio) dell’asino per il trasporto dell’uva vendemmiata, alla SCIOLINA, si perché i fratelli amici miei erano talmente avanti che distribuivano con un vecchio ferro da stiro caldo la cera dei pavimenti sotto gli sci e via giù per la loro discesa. Questo si faceva per la costruzione degli sci. I nostri genitori, invece, da racconti di qualcuno di loro più giovane, andavano direttamente sul posto, nel bosco, a prendere i tronchi dritti e poi a casa olio di gomito e “chianuozze”, la pialla, per ricavare li “rielle” per fare gli sci.
Tempi andati e cose passate, ma passate molto bene e fatte con voglia e con il cuore. Antonio e Lorenzo, “o come dicevan tutti Renzo”, avevano qualche anno più di noi altri dell’allegra combriccola contradaiola e quindi non potevamo fare altro che sentire ed apprendere. Ma come in ogni buona “stazione sciistica” avevamo le “piste” da sci e le “piste” da slitte e slittini. Mentre Antonio e Lorenzo, “o come dicevan tutti Renzo”, erano impegnati a mettere la “sciolina” noi poveri bambini ci adattavano a scivolare come potevamo. Alcune “giornate sciistiche” sono rimaste impresse nella mia memoria.
Per la prima devo fare un necessario preambolo: i contadini rispettano la terra come una persona e quindi la lasciano riposare tranquillamente quando è inverno non calpestandola per evitare che poi in estate si possano aprire delle “scrette” , delle crepe, da caderci dentro. Conscio di questo, per tutte le volte che mio nonno me l’aveva raccomandato, mi meravigliai molto quando vidi dei miei amici, tra i quali gli immancabili Nicola1 e Nicola2 che stavano “scivolando” nella bellissima discesa di due nostri vicini: Ze Giuanne e ze Tresina. Zio Giovanni e zia Teresa, non erano parenti ma si sa in campagna non si nega uno zio a nessuno. Dunque stavo dicendo che Nicola1 e Nicola2 stavano scivolando su un perfetto manto di neve, anche battuto, con un attrezzo eccezionale: il coperchio di una stufa economica, tutto liscio e tutto smaltato, che scivolava in maniera eccezionale. I “bob” che i nostri amici cittadini acquistavano facevano il solletico a quel coperchio di ferro smaltato. Ritornando a Bomba: quando vidi Nicola1 e Nicola2 scivolare su quel coperchio, pur se meravigliandomi che potessero farlo in un campo che ze Giuanne e ze Tresina coltivavano e dove adesso ha costruito casa il mio amico Rino, mi precipitai ad “aiutarli”. Volevo chiedere come mai potessimo scivolare su quella bella discesa, ma la paura della risposta con il relativo finire del “gioco” mi trattennero e partecipai alla discesa su quel fantastico attrezzo velocissimo. Il divertimento durò qualche decina di minuti, sino a quando ze Tresina comparve sul ciglione della sua terra e ci redarguì con rispetto ma con fiero cipiglio, cosa che aveva di carattere, e quindi, soprattutto perché sapevamo che potevamo fare danni alla terra, dovemmo andare via.
Mentre andavamo via dissi ai miei amici perché lasciassimo il coperchio, che tante soddisfazioni ci aveva dato, ma non mi risposero. Non lo presero loro, che erano arrivati prima di me, non lo presi neanche io.
È storia di questi giorni, ma veramente di questi giorni, Nicola1 ha ricordato il fatto, da dire che ze Giuanne e ze Tresina erano i maggiori proprietari terrieri della contrada e non avevano figli. Ze Giuanne, spirito sempre allegro, quel giorno chiamò da lontano Nicola1 e Nicola2 e disse loro di aspettarlo. Poco dopo tornò con il coperchio, quello che poi usammo per scivolare, che aveva tolto dalla sua stufa economica. La “consegna” del coperchio l’ho scoperta l’altra settimana, dopo circa 50 anni.
Era ovvio che ze Tresina, da buona massaia, si fosse adirata sia per la terra che per il coperchio “diversamente utilizzato”. Ze Giuanne ebbe solo a dire. “e falle paccìà, ca sò uagliune”.
Chiudo qui la “prima puntata” dei ricordi della neve. In una prossima “seconda puntata” parleremo di come scivolare con le tabelle dei gelati, quelle che sono appese fuori dai bar. Ma solo la prossima volta. Per adesso vi saluto ricordando con affetto ze Giuanne e ze Tresina.
Con immutato affetto e stima, statevi arrivederci
Franco di Biase